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Uno scrittore in grado di fermare il tempo e di inchiodare la Storia sul foglio è un grande scrittor


CANALE MUSSOLINI

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Antonio Pennacchi

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Mondadori, 2014

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Pag. 460

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Letto perché: antipatia verso Pennacchi

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Di Canale Mussolini e di Pennacchi è stato detto tutto e il contrario di tutto. Io (tralasciando, come ho deciso di fare in questi commenti, particolari tecnici, stilistici, ecc.) sento di dire solo questo: al netto del pregiudizio dell’eventuale lettore di sinistra, che sicuramente troverà qualcosa da ridire, al netto dello sguardo fazioso del lettore di destra – che troverà ugualmente qualcosa da ridire – ciò che rimane dopo la lettura di questo romanzo è, obiettivamente, una profonda soddisfazione. La convinzione di aver letto uno dei libri migliori premiati con lo Strega negli ultimi dieci anni – forse l’unico davvero convincente insieme a Stabat Mater di Tiziano Scarpa?

Il merito è tutto della famiglia Peruzzi, che fa la storia. Perché, come canta De Gregori, “è la gente che fa la Storia”, con le sue debolezze, la sua forza, le sue meschinità, i suoi vizi, i suoi drammi, le sue conquiste, le sue perdite.

E in Canale Mussolini c’è tutto questo, e molto di più.

C’è la nostra Storia, oltre a quella dei Peruzzi. La Storia d’Italia. Dagli inizi del secolo scorso al ventennio fascista. Dall’ascesa di Mussolini alla sua misera parabola discendente che Pennacchi, oltre a deridere, umanizza e sintetizza con lo sberleffo, rendendo superfluo qualunque giudizio che, da narratore di razza, evita accuratamente affidandosi invece ai dati storici – raccolti personalmente nei decenni di studio (molti inseriti nelle ricerche pubblicate sulla rivista Limes) –, ai fatti narrati di bocca in bocca da chi c’è stato (nonni, zii, parenti, amici), e a una serie pressoché infinita di pubblicazioni specifiche. Niente libri di storia – ché nei libri di storia, si sa, spesso e volentieri di Storia ce n’è poca, e pure scritta male.

Quarant’anni di Storia costruiti come una grande impalcatura attorno al nucleo familiare dei Peruzzi. Ma attenzione, lo dico al lettore pigro: quarant’anni e 460 pagine scritte non con l’utilizzo di mirabolanti e spesso inutili – a mio parere – arzigogoli alla La Gioia, ma con lo stile colloquiale e semplice dell’Io narrante, la cui identità si conoscerà soltanto alla fine. È questa semplicità ricercata, difficilissima da raggiungere scrivendo, a rendere il testo granitico, inattaccabile, monumentale, mai fumoso né tantomeno inutilmente pomposo. L'utilizzo mirato di un esilarante dialetto veneto è non solo riuscitissimo, ma necessario per il romanzo come il sistema nervoso lo è per l'uomo. È così che la lettura scorre in maniera impetuosa, alla stregua delle acque del Canale attorno al quale Pennacchi riannoda i fili della memoria.

Leggerete, insomma, se ne avrete voglia, 460 pagine in cui si ride e si piange, si lotta, si ama, si parte, si ritorna, si fa la guerra e si fa la pace. Con una compartecipazione e un coinvolgimento emotivo alle piccole ma enormi vicende dei protagonisti che solo un grande scrittore è in grado di innescare.

E Pennacchi con questo libro si conferma uno dei migliori scrittori italiani.

Controverso, certo, per questo stimolante. Chi crea dibattito insinuando il dubbio è sempre stimolante e meritevole di interesse. Anche se fumantino, irascibile, fastidioso e veramente antipatico come Pennacchi.

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