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La Nazione? Sì, ma quale?

IL ROMANZO DELLA NAZIONE

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Maurizio Maggiani

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Feltrinelli, 2015

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Pag. 297

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Letto perché: mi mancava un libro dell'autore

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La nostra Nazione, così come “Il Romanzo della Nazione” di Maggiani, esiste solo nella misura in cui esistono le storie e le azioni individuali. Le azioni di ognuno di noi, di ognuno dei nostri padri, di ognuna delle nostre madri e via dicendo. Nonni, zii, bisnonni e trisavoli. Persino conoscenti. La Nazione, insomma, è la somma delle memorie individuali.

Per il resto, del concetto di Nazione così come lo si intende solitamente, rimane poco o nulla, e ciò che rimane compone un puzzle mal costruito, una Nazione mal costruita, un quadro composto da pezzetti raffazzonati e spesso male incastrati l’uno con l’altro. Un’utopia.

Maggiani, partendo dagli ultimi anni di vita dei suoi genitori e dalla loro morte, ricostruisce la storia della sua famiglia e, volontariamente, sin dal titolo, illude il lettore circa la possibilità di ricostruire la storia di una Nazione o, addirittura, di costruirla, quella Nazione.

L’idea dell’io narrante – lo scrittore stesso – di scrivere il Romanzo della Nazione, è progetto destinato a fallire. E Maggiani lo sa. C’è dell’ironia nel titolo del libro, perché è chiaro che il Romanzo della Nazione è qualcosa di irrealizzabile. Troppe vite, troppi fatti: nessuno scrittore avrebbe la pazienza, né la voglia né il tempo né le capacità, di scrivere Il Romanzo della Nazione. Specialmente di una nazione come l’Italia, di cui lo stesso Garibaldi disse: “non è questa l’Italia che sognavo”.

E Maggiani, utilizzando la stessa ironia anche nella struttura del testo – il romanzo non è un romanzo storico, né un romanzo puro, ed è difficile da catalogare – ci dimostra che la nostra è una Nazione che in tanti hanno provato a costruire, ma senza successo: ramilgatori, ingegneri, calderai, scarriolanti, fabbri, facchini, tornitori, falegnami, pittori, manovali, sarte, badilanti, cuoche, pellai, vetrai, congegnatori, architetti, battilama, ottici, fuochisti, ferrovieri, artificieri, inventori, carrai, scritturali, ragionieri, scalpellini, medici, marinai, piloti, cannonieri, fucilieri, macchinisti, nocchieri, timonieri. E poi, mazziniani e garibaldini. Persino Cavour, con l’intuizione di creare a La Spezia il Regio Arsenale, e la Dandolo, la nave corazzata più potente del mondo. Riuscì nell’intento, Cavour, ma non per questo costruì una Nazione. Persino la Dandolo non esplose mai un colpo, ma venne utilizzata solo nel 1908. Non per combattere, ma per mettere in salvo i terremotati siciliani. Per recuperare i pezzi, insomma. A questo servì la nave che da sola avrebbe potuto distruggere l’intera flotta americana. O fare una Nazione.

Maggiani fa la stessa cosa scrivendo questo libro. Ricostruisce pezzi di vite già di per sé minuscole, che messe l’una dietro l’altra, a volte senza nessun ordine apparente, diventano ancora più piccole e forse insignificanti nell’economia della narrazione. Al tempo stesso, però, queste vite sono la cosa più concreta ed epica del romanzo. Maggiani non è un narratore puro, non segue una trama e manca in alcuni frangenti di capacità di affabulazione, ma credo sia una scelta, la sua. Non è facile stare dietro alle piccole vite di chi ha cercato di fare la Nazione. E non è facile, per il lettore, stare dietro a quelle stesse vite, che si intrecciano in maniera frammentata nella costruzione “singolare” del testo. “Singolarità”, a mio parere, comunque apprezzabile. Perché è con la “singolarità” che si costruiscono le Nazioni. O almeno ci si prova.

Anche se alla fine il prodotto di quei tentativi sono malinconia, disillusione e disincanto. Sentimenti incarnati nel Padre e nella Madre dell’autore, perni della narrazione nella prima parte del romanzo. Mausolei della vita di Maggiani e della sua, di Nazione. Perché ognuno di noi è discendente di chi, nel suo piccolo, ha provato a costruire una Nazione. Ognuno di noi, a sua volta, ha in sé ciò che occorre per costruire una Nazione. O almeno per provarci.

Con cosa si costruisce una Nazione? La domanda è il mantra del libro. Forse è la “singolarità”, o forse la capacità di scegliersi e rincorrere un sogno, pur sapendo – per parafrasare le ultime righe scritte dal padre di Maggiani – che “vivere di sogni è un’utopia”.

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