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Politica o non politica?


CHIRU’

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Michela Murgia

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Einaudi, 2015

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Pag. 191

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Letto perché: stima per la Murgia

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Partiamo dall’imbarazzante finale: ciò che mai, da lettore, nonché da scrittore, avrei voluto leggere: l’apoteosi del ridicolo. Forse solo Silvia Avallone ha fatto di peggio ai tempi di Acciaio. Allora risi per dieci minuti, stavolta ci sono andato vicino. Come dire, di solito l’ovvio non viene mai preso in considerazione nella stesura di un finale, ammenoché non si tratti di un melodrammatico filmone americano blockbuster per cui te ne aspetti solo uno ed effettivamente quello è, e te lo devi far scivolare addosso, cosciente che non poteva andare diversamente.

In un libro, invece, quando questo accade ti si forma come minimo un sorrisino stiracchiato sul volto, e ti ritrovi a pensare: ma perché? E nel caso di Chirù quel perché te lo porti dietro sin dalla prima pagina. Ti chiedi: ma dove vuole andare a parare l’autrice? Qual è il senso di questa storia? E ancora: cosa mi lascerà dentro, la lettura, se non una notevole irritazione verso la scrittrice? Irritazione, sì. Perché lei, l’autrice, che magari reputi capace, cerca senza riuscirci di camuffare il nulla con uno stile spesso pomposo e così arzigogolato da rasentare in molti passaggi il ridicolo.

Alcuni dialoghi diventano grotteschi (partendo da quando la protagonista tira fuori il nomignolo Chirù. Lì si intuisce già quale sarà l'andazzo del libro).

I personaggi stessi lo sono, grotteschi. In particolare Eleonora: un’attrice quarantenne, "life coach artistico", il cui ruolo resta oscuro (non si capisce bene cosa dovrebbe insegnare al ragazzo diciottenne preso in carico, Chirù, il cui desiderio è di affermarsi come violinista).

Non è una maestra, Eleonora. E Chirù non è un allievo. Tra loro l’autrice cerca di tessere una tela che li leghi, la cui trama è fatta di potere, manipolazione, dipendenza e infine amore. Ovviamente, amore.

Ed è forse nel Potere che si cela il senso di questo libro, il motivo ispiratore, quello che ha portato l’autrice a imbarcarsi in una narrazione che è come una macchina ingolfata: non parte mai. Il Potere che, finalmente, secondo l’autrice, è nelle mani di una donna. Peccato che alla fine il tutto si riduca quasi esclusivamente a una melensa pseudostoriadamore tra donna matura con alle spalle rapporto problematico col padre e diciottenne arrivista.

Non solo Eleonora e Chirù, ma tutti i personaggi si portano addosso qualcosa di innaturale, troppo costruito e poco credibile. Compreso Martin, direttore artistico del teatro d’Opera di Stoccolma alla comparsa del quale si raggiungono i più alti picchi di grottesco, fino ad arrivare al finale.

In mezzo, c’è una storia priva di profondità, una storia che resta sospesa in superficie, una storia che l’autrice - da tempo attiva politicamente - ha definito appunto “politica”, perché incentrata sul Potere finalmente al femminile, ma che di politico non ha nulla, anzi, la mia impressione è che al contrario il personaggio femminile finisca come al solito per inciampare nei “luoghi comuni più comuni”.

Il passaggio in Svezia è così debole da farti dimenticare di avere gli occhi puntati sulle pagine di un “Supercorallo Einaudi”. Ti aspetti che da un momento all’altro accada qualcosa, e che la storia non scivoli sull’amore, e invece… accade poco, e quel poco che accade sarebbe stato meglio se non fosse accaduto.

Insomma, lontana dai riti sardi dell’Accabadora, Michela Murgia si è persa. Correva il 2010. L’anno del suo successo editoriale più grande, sempre targato Einaudi. Da quel romanzo, che pur avendo qualche debolezza nella parte torinese aveva una sua sostanza complessiva ben radicata in terra di Sardegna, credo che la Murgia non abbia più prodotto nulla di convincente a livello letterario. E questo mi dispiace. Mi aspettavo molto di più da Michela Murgia. Mi aspettavo proprio altro.


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